«Alcune riflessioni su questo appassionante interrogativo dei «selvicoltori sistemici»
Secondarie considerazioni
Il professor Ciancio afferma che la “Scienza [che] non si consegue per via induttiva ma per via deduttiva…” e che “Le teorie, [come vedremo in seguito], non possono non derivare che da intuizioni o da congetture, quindi, non da dati acquisibili per via sperimentale”.1 A mio avviso, questa perentoria affermazione serve solo a far credere che anche la «selvicoltura sistemica», in quanto scaturita da un’intuizione dell’autore, ha i requisiti di una «scienza». Questa tesi («selvicoltura sistemica» = «scienza») dovrebbe però essere logicamente dimostrata, perché non si tratta di un assioma di per sé evidente, ma di un’ipotesi la cui validità deve essere provata, soprattutto se riferita alla selvicoltura.
L’asserzione, più volte reiterata dai “silvo-sistemici”, che “Il nuovo paradigma scientifico [selvicoltura sistemica], invece, si basa sul concetto di inter-soggettività della scienza” è piuttosto equivoca, perché non basta l’affermazione dell’autore per convalidare la tesi che la «selvicoltura sistemica sia un nuovo «paradigma scientifico», ed è quantomeno scorretto propagandare questa affermazione personale come se fosse una verità assiomatica.
Anche in questo caso si tratta di capire in quale senso si applica il concetto di “inter-soggettività della scienza“, poiché ci può essere un accordo inter-soggettivo basato sul «senso comune», quando il significato di una certa situazione è condiviso sulla base di comuni modi di concepire la realtà, oppure su un parziale assenso relativo a determinati fenomeni.
In campo scientifico l’accordo inter-soggettivo si basa sulla possibilità generalizzata di controllare, vagliare i dati e testare i risultati conseguiti da una determinata ricerca o teoria. Se le descrizioni dei fenomeni dipendono dall’osservatore e non sono formalizzate attraverso osservazioni sperimentali o su un procedimento logico-matematico, oltreché su rigorosi protocolli di acquisizione dei dati sperimentali, l’accordo inter-soggettivo è insignificante.2
Il metodo più efficace per ottenere conoscenze certe e veritiere sul mondo circostante, è tuttora quello galileiano fondato su “sensate esperienze e certe dimostrazioni”, in breve sull’accertamento di fatti riproducibili in condizioni controllate e nel loro collegamento mediante relazioni reciproche logicamente verificabili. Per questo ci si basa sul postulato ontologico, che la realtà è separabile in oggetti distinti, indipendenti dagli elementi circostanti, e che le proprietà di un oggetto sono interamente deducibili dalle proprietà delle parti che lo costituiscono e dalle loro relazioni reciproche.
Per scoprire le leggi che regolano le proprietà degli elementi naturali, non basta procedere per intuizioni personali in grado di cogliere l’essenza di un fenomeno e intervenire successivamente per “approssimazioni successive” (Trials and Errors), come proposto dal professor Ciancio.
Coltivare il bosco in base a questi presupposti, significa non solo negare il patrimonio di conoscenze acquisite e gli enormi progressi compiuti nello studio delle biocenosi boschive, ma anche auspicare il ritorno a pratiche empiriche nella gestione dei boschi in base a personali convincimenti filosofici o ideologici, che niente hanno a che fare con la «scienza». Auspicare che la gestione delle foreste venga affidata a quanti sono in grado di interpretare e farsi portavoce degli interessi di questo «organismo» o «sistema autopoietico», significa proporre una sorta di autoritarismo nella gestione delle foreste, basato su presunte capacità interpretative e operative di quanti si autoproclamano essere in grado di ascoltare e interpretare le esigenze espresse dal bosco.
La selvicoltura, in quanto pratica di coltivazione del bosco (silva-cŏlere), trae le indicazioni sulle modalità di curare i boschi sia dalle osservazioni empiriche accumulate nel tempo in ambienti e società diverse, sia dall’apporto di conoscenze scientifiche acquisite dalle discipline che indagano sulla natura e sulla società. Essa ha sempre avuto come finalità prioritaria quella di soddisfare i molteplici e mutevoli fabbisogni dell’uomo, cercando di garantire e incrementare, per quanto possibile, i benefici derivanti dal bosco mantenendone le caratteristiche di funzionalità e vitalità.
Questo scopo pratico della selvicoltura di soddisfare i molteplici e mutevoli bisogni umani viene stravolto dai «selvicoltori sistemici», i quali affermano che: “le finalità della selvicoltura sistemica sono: il mantenimento del sistema bosco in equilibrio con l’ambiente; la conservazione e l’aumento della biodiversità e, più in generale, della complessità del sistema; la congruenza dell’attività colturale con gli altri sistemi con i quali il bosco interagisce”.3
L’affermazione che la «selvicoltura sistemica» è «un’idea scientifica e tecnica» – “imperniata su un principio di logica elementare del rispetto degli equilibri bioecologici del bosco” – è vacua, inconsistente. «Equilibri bioecologici del bosco» è un’espressione polisemica, non definisce un carattere specifico (ontologico) del bosco, non precisa a quali strutture o caratteri oggettivi, reali delle biocenosi boschive siano legati questi mutevoli “equilibri bioecologici”. Un’idea scientifica e tecnica non si “impernia” su un principio di logica elementare basato sul rispetto di indefiniti mutevoli “equilibri bioecologici”, i quali per una “logica elementare” dovrebbero essere rispettati da indefiniti soggetti mediante imprecisate norme comportamentali.
È opinione del professor Ciancio che “la tendenza attuale è di considerare il bosco entità di valore”, perché “con questa espressione si identifica un soggetto estremamente complesso che, in quanto tale, vive di vita autonoma, influenzata da innumerevoli fattori”.
Questa asserzione (il bosco è «un’entità che ha valore in sé») è piuttosto curiosa, perché è sempre un agente esterno che attribuisce alla «entità» o «ente bosco» un «valore d’uso o di scambio». L’utilità che l’oggetto (l’entità) è per chi lo possiede un «valore d’uso», mentre il rapporto quantitativo di scambio con altri beni o con moneta costituisce un «valore di scambio». L’insieme delle caratteristiche e delle qualità che danno pregio al bosco rappresentano, in senso figurato un «valore», perché lo rendono apprezzabile da un punto di vista estetico, economico, ecologico o ambientale. Ma il «valore» non è una qualità costitutiva dell’entità «bosco», una caratteristica che connota l’essenza del bosco (l’essere bosco). Il pregio, l’importanza del bosco dal punto di vista estetico, culturale, storico, scientifico, (addirittura «morale» per l’autore) non è un carattere insito, connaturato al bosco, a meno che non si consideri il bosco un «organismo», una «entità organica», un «essere» vivente (Wesen, Creature, Being).
Il bosco viene descritto dai «silvo-sistemici» come «sistema biologico complesso e adattativo», un «sistema vivente, un’entità che ha valore in sé, un soggetto di diritti che va tutelato, conservato e difeso». Se queste espressioni non sono metaforiche, è evidente che l’autore presuppone che le biocenosi boschive abbiano le caratteristiche di un «organismo» e siano dotate di funzionalità intrinseche che interagiscono per realizzare prefissati scopi. Basandosi quindi sul personale convincimento che il «bosco» è una «entità organica», egli propone una gestione «etica», consona ad una «entità» che detiene innati diritti.
La proposta di una gestione etica del bosco non può basarsi sul personale convincimento che il bosco è un «sistema complesso autopoietico», perché non è affatto scontato che la biocenosi boschiva sia un «sistema organico» costituito da un insieme funzionale di elementi o di strutture che operano per un fine comune, un’entità dotata di norme comportamentali analoghe a quelle che si ritrovano negli esseri viventi.
L’attribuzione di un valore intrinseco agli esseri viventi è materia di riflessione religiosa o metafisica, che esula dall’indagine scientifica sui caratteri e funzionalità degli ecosistemi e nulla ha a che vedere con la pratica forestale. Per quanto riguarda le modalità d’uso del bosco si può tutt’al più auspicare che la fruizione di questo bene – come di ogni altro bene naturale – sia regolata da un’etica della responsabilità, ma ciò non significa che esista un «valore» connaturato al bosco, che dovrebbe indirizzare il comportamento umano.
Alla fine del secolo XIX, il concetto di «organismo» era già presente e rappresentava il rifiuto del meccanicismo, una reazione alla modernità avanzante, il desiderio di trovare sicurezza nei valori sociali e politici antichi e una volontà di rigenerarsi nel ritorno alla naturalità. La visione del tutt’uno organico del bosco e della natura si contrappone alla visione individualistica dei singoli soggetti dotati di specifiche caratteristiche e di autonome potenzialità e capacità di crescita ed evoluzione. Questa concezione «olistico-organicistica» di matrice vitalistica, in parte derivata dalle teorie filosofiche di Spencer, ha trovato – a quel tempo – nei paesi anglosassoni una discreta diffusione. Alcuni scienziati ”enfatizzarono i processi, la creatività, l’infinità, l’«unità organica del tutto» e la «realizzazione di eventi che si succedono in una comunità interdipendente»”. L’interdipendenza e la sinergia degli elementi costitutivi un ecosistema diventarono una sorta di dogma anche per alcuni biologi che affermarono l’unitarietà dei singoli elementi nel complesso organico: “Come in un organismo, i vari elementi naturali sono così interdipendenti, così intrecciati in un’unica rete dell’essere che nessuno di essi può essere separato senza alterare la propria identità e quella del tutto”.( Whitehead)4 A queste teorie organicistiche, presentate dai «silvo-sistemici» come innovative, è stata negata ogni validità scientifica e, ormai da un secolo a questa parte, esse hanno perduto ogni credibilità in quanto elaborazioni speculative di matrice ideologica spenceriana non traducibili sperimentalmente.
I «silvo-sistemici» fanno spesso riferimento al «bosco durevole» o «permanente»: il «Dauerwald» di Alfred Möller. Questi avrebbe avuto, secondo Ciancio, “il merito di aver segnato profondamente il pensiero forestale del secolo scorso, introducendo l’originale principio secondo il quale, nell’approccio colturale, è il bosco che indica al forestale quale debba essere la misura dell’intervento e non il contrario”.5
Nel suo trattato6 Alfred Möller si dice convinto che il bosco sia un «organismo vivente» (lebendes Organismus). e, per dimostrare la validità della sua concezione nel realizzare un «bosco durevole» (Dauerwald) indica le esperienze positive maturate nella gestione della Bärenthorener Forst.7
Egli afferma che il “Bosco è un essere organico vivente [einheitliches, lebendiges Wesen] con una moltitudine infinita di organi, che operano tutti congiuntamente e che tra loro hanno rapporti di scambio. Nello spazio racchiuso tra le cime delle chiome e le estreme ramificazioni delle radici nel suolo è individuata questa entità organica [Wesen] e tutto ciò che si trova in questo spazio vive e si intreccia [webt], appartiene all’organismo [gehört dem Organismus an]. Questa «entità bosco» è di durata eterna. Esso vive, lavora e si modifica”.8
Il presupposto per realizzare un bosco durevole nel tempo è assumere coscienza che si agisce su un «organismo vivente». “La gestione duratura del bosco considera la foresta un entità vivente unitaria (organismo coerente) dotato di un’infinità di organi, che agiscono in modo sinergico ed interattivo… “. Nel praticare la gestione del «bosco durevole» (Dauerwaldbetrieb), non ci si deve limitare a guardare quello che fa la natura ma, attraverso un continuo scrutare, si deve capire quale è «la volontà del bosco», quali sono le sue intime esigenze (Bedürfnisse). Si deve quindi permettere a questa «volontà» di realizzarsi ed è necessario pertanto indirizzarla unicamente verso i percorsi prefissati mediante delle regole tecniche”. È evidente che non si tratta di metafore, di modi di dire immaginifici per descrivere l’esistenza e lo sviluppo del bosco, quanto piuttosto di una visione organicistica olistica del bosco e della natura.
I sostenitori del bosco permanente (Dauerwald) affermano che dietro ciò che appare «bosco», al di là dell’aspetto percettibile dell’essere esistente (Dasein) si cela l’essenza dell’essere vivente (Wesen), l’essere nella sua effettiva totalità (Sosein). Quest’essenza si può afferrare solo intuitivamente. Nessun procedimento scientifico è in grado di cogliere appieno la totalità dell’essere (Sosein), perché ogni sistema scientifico si fonda su una visione parziale degli elementi ed è quindi intrinsecamente inabile ad afferrare l’essenza.
In modo contorto ritroviamo questa filosofia anche negli scritti del professor Ciancio, laddove enuncia l’aforisma “C’è chi parla di bosco e chi parla con il bosco”, soggiungendo che “Per creare cultura forestale, bisogna prima imparare il linguaggio e poi parlare con il bosco”. Evidentemente deve trattarsi di un linguaggio tra iniziati, tra seguaci di questa novella disciplina «silvo-sistemica», definita anche come «bioeconomia dei silvosistemi». È privilegio dei «silvo-sistemici» cogliere l’intima essenza del bosco, il “Sosein” del “Dauerwald” e, attraverso questa ispirazione, applicare la «selvicoltura sistemica» guidati dalle «esigenze» e dalla «volontà» del bosco.
Se non è «alienazione» questa; i miei, men che venticinque lettori, trovino la spiegazione più adeguata.
La designazione del bosco come «sistema autopoietico complesso» è un chiaro ed inequivocabile richiamo alle concezioni olistiche di Smuts9 e alla visione di Clements, che nelle associazioni vegetali vedeva dei «super-organismi» (super-organism), dotati di una unitaria capacità evolutiva in quanto complesso organico di specie vegetali.10 Quest’ultimo infatti dichiarava esplicitamente che “ogni formazione climax è in grado di riprodursi, ripetendo in modo essenzialmente fedele gli stadi del suo sviluppo. La storia della vita di una formazione è un processo complesso ma definito, paragonabile nei suoi caratteri fondamentali alla storia della vita di una pianta individuale”.
Questa visione finalistica del processo evolutivo delle formazioni vegetali (sperimentalmente mai provata) verrà rigettata dalla maggioranza dei fitosociologi e dagli studiosi delle comunità vegetali. È arduo infatti sostenere e far passare come scientifica la tesi, che le varie componenti di una biocenosi (come il bosco) agiscano in maniera sinergica ed esercitino un’azione coordinata simultanea allo scopo di realizzare un fine. Questa «unità – totalità», non esprimibile con l’insieme delle parti costituenti, si può forse ritrovare negli organismi biologici viventi, ma è difficile ipotizzare che tutte le componenti biotiche e abiotiche di un ecosistema agiscano in modo coordinato e sinergico per un fine. Qui si tratta di una concezione filosofica della natura, di una visione spiritualistica del «bosco» del tutto estranea alle conoscenze scientifiche.
«Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς..»
E gli uomini vollero le tenebre anziché la luce.
(Giovanni, III, 19.)
Queste teorie olistiche, dal sapore misticheggiante, sono purtroppo ancora in voga presso i movimenti che propugnano l’ecologia profonda (Deep Ecology) o che fanno riferimento all’eco-filosofia (ecosophy).11
Anche i «silvo-sistemici» si richiamano a queste visioni di “profonda ecologia” come strumento conoscitivo delle strutture e delle dinamiche delle biocenosi boschive ed insieme come pratica operativa per i selvicoltori. In questo caso l’interrogativo se la «selvicoltura» sia una «scienza», una «tecnica» o un’«arte» non ha risposta. Forse rimane un punto fermo e cioè che la «selvicoltura sistemica» è una visione onirica, “un appello per la rinascita dell’immaginazione, fondata sull’inconscio quale fu rivelato dalla psicoanalisi, insieme con una nuova sottolineatura del magico, dell’irrazionalità accidentale, dei simboli e dei sogni”.12
“Se si parla con il bosco, allora si comprende che la selvicoltura è la scienza, ripeto la scienza, attraverso la quale, l’uomo, componente essenziale del sistema, si adopera in favore del bosco perché sente il dovere di rispettarne le peculiarità, ovvero i suoi diritti”.13
«Dio ce ne scampi!»
(Quod avertat Deus!)
dall’avere come tutori dei boschi i «silvo-sistemici»; i «movimenti ecofilosofici, ecosofici, dell’ecologia profonda» (Ecophilosophy, Ecosophy and the Deep Ecology Movements); gli adoratori di «Madre Terra»; gli irrazionalistici cultori dello «sviluppo sostenibile», del «bio- ed eco-centrismo», dello «eco-femminismo», ecc. ecc. ( a cui vorrei aggiungere anche chi vuole un “new deal, un nuovo pensiero, una nuova prospettiva filosofica nei confronti della natura; o, se si vuole, un nuovo modo di vedere il bosco.”14
”Vammi in cerca dell’Elleboro nero,
che il senno renda a questa creatura”
(G. D’Annunzio, La figlia di Iorio).
Non è assolutamente “necessario pensare alla gestione del bosco non solo sotto l’aspetto pratico, ma anche in senso metafisico, estetico, ed etico”. È invece indispensabile porre un freno a questa deriva metafisica della selvicoltura.
Torniamo di preferenza al male minore, alla “Forestale” – di recente incorporata nella “Benemerita”. Facciamo ritorno al vecchio CFS che in tempi (ormai remoti) ha annoverato competenti selvicoltori ed appassionati operatori forestali, che con tenacia e scarse risorse hanno fatto del loro meglio per salvaguardare le nostre montagne e i nostri boschi dal dissesto e dalla rapina.
Recitiamo un dovuto “Requiem” per questa istituzione di recente scomparsa, senza alcun rimpianto per il suo direttore che pensa essere “necessario che l’uomo faccia rientrare l’ecologia nel suo giusto alveo per poi utilizzare il creato secondo criteri etici indipendenti dal mondo naturale ma legati alla cultura, a paradigmi interiori, provenienti da Dio, qualora si abbia una visione di tipo religioso, dal mondo scientifico, tecnico e così via”.
In fondo siamo scampati dal pericolo che il patrimonio forestale nazionale fosse affidato alle cure di chi è convinto che “non si parla più di ecologia che si trasforma in ecosofia, che a sua volta tende ad invadere il campo della teologia”.15
Cerchiamo (moderando lo spontaneo pessimismo) di affrontare con razionalità e professionale competenza i molteplici problemi di politica forestale, senza confidare che sia “dovere del bosco [di] offrirsi all’uomo affinché la vita dell’uomo, nel suo aspetto biologico e spirituale, possa crescere e tendere alla pienezza che comporta l’umanizzazione della natura”. 16
Incapace di parlare con il bosco, privo di speranza che egli mi si offra per far crescere la mia vita biologica e culturale, debbo capacitarmi ad accettare la personale inadeguatezza intellettuale di venire a capo dell’alato discorso su «selvicoltura: scienza, tecnica o arte?» e confessare di non aver compreso quale sia l’attributo appropriato per definire questa pratica di coltivazione delle selve.
- Ciancio Orazio, 2015 – La selvicoltura: tecnica o scienza ? L’Italia Forestale e Montana, 70 (1): 3‐6.
- “L’accordo inter-soggettivo, poggiato su ragionamento logico-matematico e osservazione sperimentale, non deve essere confuso con un semplice criterio di maggioranza, secondo il quale è vero ciò che e condiviso dai più. Esso, infatti, non ha bisogno di nessun principio d’autorità per essere imposto e scaturisce spontaneamente in chiunque, dotato di ragione, voglia onestamente ricercare la verità. Né l’autorità personale o numerica dei suoi sostenitori, né quella derivante dalla tradizione possono, infatti, decidere a favore della verità o falsità di una affermazione. Nella scienza accade spesso che affermazioni ritenute vere da molto tempo e sostenute da illustri scienziati cadano impietosamente di fronte a nuove evidenze sperimentali o nuove considerazioni logico-matematiche”. (Silvano Fuso, Perché la scienza è attendibile?)
- Ciancio Orazio, 2011 – Systemic silviculture: philosophical, epistemological and methodological aspects. L’Italia Forestale e Montana, 66 (3): 181-190, Traduzione italiana.
- Forest Donald, 1994 – Storia delle idee ecologiche. Società editrice “Il Mulino”, Bologna, p. 388.
- Ciancio Orazio, 2010 – La teoria della selvicoltura sistemica: i razionalisti e gli anti-razionalisti, le «sterili disquisizioni» e il sonnambulismo della «intellighenzia» forestale. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Tipografia Coppini, Firenze, p. 10.
- Möller Alfred, 1922 – Der Dauerwaldgedanke; sein Sinn und seine Bedeutung, Verlag von Julius Springer, Berlin.
- Pietschmann G., Zur Geschichte des Reviers Bärenthoren mit Schwerpunkt 1920-1945, Sachsen-Anhalt Ministerium für Landschaft und Umwelt, Reihe „Wald in Sachsen-Anhalt“, Heft Nr. 17, November 2008.
- Möller Alfred, 1922 – Der Dauerwald: sein Sinn und Bedeutung. Julius Springer Verlag, Berlin.
- Smuts Jan Christiaan, 1926 – Holism And Evolution, The Original Source of the Holistic Approach to Life, edited by Sanford Holst, Sierra Sunrise Books, Sherman Oaks, California, 1999. Reprint, Originally Published Macmillan: London 1926.
- Clements Frederic, 1905 – Research Methods. The University Publishing Co., Lincoln, Nebraska, p.199.
- Il termine è stato introdotto da Arne Naess che ne dà questa definizione “una filosofia dell’armonia o equilibrio ecologico, … una filosofia una sorta di saggezza, chiaramente, normativa, che contiene sia regole, norme, principi basilari, valori prioritari enunciati, sia ipotesi riguardanti lo stato delle cose del nostro universo”.
- Willet John, 1978 – The new Sobriety. Art and Politics in the Weimar Period, London. Citazione tratta da Hobsbawm Eric J,., 1994 – Il secolo breve (1914-1991). BUR – Garzanti Editore, Milano, p. 217.
- Peculiarità è una proprietà specifica, caratteristica tipica e singolare di un individuo o di un oggetto astratto o concreto. Un bosco (tratto di terreno più o meno vasto, con alberi generalmente di alto fusto, cresciuti spontanei o piantati dall’uomo, e vegetazione arbustiva, o definizioni similari) può possedere molte proprietà o caratteristiche specifiche (tipologia, aggregazione di specie, modalità di governo e trattamento, ecc.), ma non ha come caratteristica peculiare dei «diritti», neppure in senso figurato.
- Ciancio Orazio, Il bosco tra ragioni del cuore e passioni della ragione.
- Patrone Cesare, 2012 – Ecologia e bioetica: brevi considerazioni per un moderno approccio alla tutela dell’ambiente; in Atti dei convegni Vallombrosa, 15 giugno 2012, Edizioni Vallombrosa, Firenze p. 37- 41.
- Corona Piermaria, Portoghesi Luigi, 1996 – Appunti per un’etica in selvicoltura, in Ciancio O. (ed.), Il bosco e l’uomo, Accademia Italiana di Scienze Forestali, Tipografia Coppini, Firenze, p. 195.